Welfare culturale questo sconosciuto – parte seconda
Riprendiamo il tema della scorsa settimana (https://sistemabibliotecariotortonese.it/welfare-culturale-questo-sconosciuto/) e parliamo nuovamente di welfare culturale, ormai non più sconosciuto…
Almeno da tre decenni il welfare culturale viene sperimentato nei Paesi scandinavi (ovviamente) e nel Regno Unito. Più di recente in Canada e anche in Italia. In effetti l’Enciclopedia Treccani riporta una definizione molto esauriente:
“un nuovo modello integrato di promozione del benessere e della salute e degli individui e delle comunità, attraverso pratiche fondate sulle arti visive, performative e sul patrimonio culturale. Il Welfare culturale si fonda sul riconoscimento, sancito anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, dell’efficacia di alcune specifiche attività culturali, artistiche e creative, come fattore:
1. di promozione della salute in ottica biopsicosociale e salutogenica, anche legato all’acquisizione di abilità di coping e sviluppo delle life skill;
2. di benessere soggettivo e di soddisfazione per la vita, in forza dei suoi aspetti relazionali, e potenziamento delle risorse (empowerment) e della capacità di apprendimento;
3. di contrasto alle disuguaglianze di salute e di coesione sociale per la facilitazione all’accesso e lo sviluppo di capitale sociale individuale e di comunità locale;
4. di invecchiamento attivo, contrasto alla depressione e al decadimento psicofisico derivante dall’abbandono e dall’isolamento;
5. di inclusione e di empowerment per persone con disabilità anche gravi e per persone in condizioni di marginalizzazione o svantaggio, anche estrema (ad esempio, senza fissa dimora, detenuti, ecc.);
6. complementare di percorsi terapeutici tradizionali;
7. di supporto alla relazione medico-paziente, attraverso le medical humanities e la trasformazione fisica dei luoghi di cura;
8. di supporto alla relazione di cura, anche e soprattutto per i carer non professionali;
9. mitigante e ritardante per alcune condizioni degenerative, come demenze e il morbo di Parkinson.
Allora dov’è l’inghippo?
A fronte di una così esaustiva definizione, non si riesce a capire come mai la cultura non sia ancora riuscita ad affermarsi come pratica e approccio di protezione sociale. Ancor più se si tratta di servizi e di politiche legate all’educazione. Insomma con la teoria ci siamo, anzi siamo ben consapevoli della rilevanza del welfare culturale; è con la pratica che siamo un poco claudicanti. In un paese come l’Italia, poi, dove la bellezza del paesaggio e l’esperienza quotidiana di contatto con un patrimonio storico ed artistico formano il contesto ideale per la diffusione del benessere.
La cultura è esperienza. Frequentare regolarmente e intensamente i luoghi del patrimonio e delle attività cultuali ed esercitare la creatività artistica, amatoriale o professionale, incidono significativamente sui percorsi educativi e formativi. Non solo per i più giovani, ma anche per gli adulti e gli anziani. Fare e partecipare alla cultura sono garanzia di inclusione, coesione, socialità, integrazione…
Come fare per sbloccare il potenziale del welfare culturale?
Molto banalmente potrebbe essere sufficiente applicare la teoria. Conosciamo tutte le buone pratiche necessarie, dobbiamo solo applicarle. E abbiamo la fortuna di vivere in un paese, come più volte ripetuto, che ci offre tutto ciò di cui abbiamo bisogno: ambiente e patrimonio. E poi, cosa in cui io personalmente credo molto, fare rete per contribuire allo sviluppo, alla diffusione e alla promozione di forme di welfare. Nel 2020 è nato in Italia il Cultural Welfare Center (CCW) che, attraverso appunto attività di rete, di ricerca e di patrocinio, si propone di dare valore e rafforzare le esperienze che adottano la cultura nei processi di cambiamento sociale.
Nina
ps. per chi volesse approfondire l’argomento, consiglio la lettura del numero 2022 – 26/1 di Pedagogika.it – Rivista di educazione, formazione e cultura