TEDDY di Jason Rekulak

TEDDY di Jason Rekulak è un thriller. Ma non come tanti. E’ un thriller che sfocia nel paranormale. E’ anche un romanzo con un finale che racconta di un lutto, di una fine e di una rinascita.

Il pathos, la tensione sono tenuti alti dalla scrittura in prima persona della protagonista, una scrittura veloce e incisiva, molto diretta che permette al lettore di sentirsi parte della storia.

Il colpo di scena c’è all’inizio e infatti lo svolgimento poi, è molto distante dalle premesse iniziali. Le illustrazioni all’interno, ossia i disegni di Teddy, diventano via via più inquietanti, aumentando il senso di disagio che avverte il lettore e che è parte integrante della storia, è il sostegno della storia stessa.

Concludendo è un bellissimo libro, da leggere d’un fiato, con ottimi spunti: inquietante, carico di pathos ma senza cadere nel grottesco, nell’illogico o nello spaventoso.

TEDDY di Jason Rekulak - copertina a colori

L’autore

Jason Rekulak, nato e cresciuto in New Jersey, vive oggi a Philadelphia con la moglie e due figli. Prima di dedicarsi alla scrittura, è stato fino al 2018 l’editore di Quirk Books. Il suo romanzo d’esordio, “I favolosi anni di Billy Marvin” (Rizzoli, 2018) è stato tradotto in 12 lingue e nominato per un Edgar Award. Teddy è il suo secondo romanzo che presto diventerà una serie per Netflix.

Incipit.

Qualche anno fa ero praticamente al verde, e così mi offrii volontaria per un progetto di ricerca della University of Pennsylvania. Seguendo le indicazioni arrivai all’ospedale del campus, A West Philly, ed entrai in un grande auditorium pieno di donne, tutte tra i diciotto e i trentacinque anni. Non c’erano abbastanza posti e io arrivai tra le ultime, così dovetti sedermi , tremante , sul pavimento. C’erano caffè e ciambelle al cioccolato gratuiti e un grosso televisore che trasmetteva The Price Is Right, ma tutte quante guardavano il telefono. Sembrava di essere in coda per qualche ufficio, però ci pagavano un tanto all’ora e quindi avremmo aspettato volentieri anche tutto il giorno.

Una dottoressa dal camice bianco si alzò e si presentò. Disse di chiamarsi Susan o Stacey o Samantha e di far parte del gruppo di ricercatori coinvolti nel progetto. Lesse tutti i soliti avvisi e clausole, e ci ricordò che saremmo state retribuite con buoni Amazon, niente assegni né contanti. Qualcuno si lamentò, a me invece non importava: avevo un amico che mi avrebbe riscattato quei buoni per ottanta centesimi a dollaro, quindi ero a posto.

Ogni minuto Susan ( si chiamava Susan , credo) leggeva un nome dal suo elenco e una di noi lasciava la sala. Nessuna tornava indietro. In poc tempo si erano liberati parecchi posti, ma io restai comunque sul pavimento, perché ero convinta di non riuscire a spostarmi senza vomitare. Mi faceva male tutto e avevo i brividi. Alla fine si sparse la voce che non era previsto alcun screening preliminare – nessuno cioè mi avrebbe preso un campione di urina o le pulsazioni, né avrebbe fatto qualcosa che potesse farmi escludere- , allora misi in bocca una compressa di ossicodone da quaranta milligrammi e tolsi tutto il rivestimento giallo.

 

Buona lettura da Pia